Negli ultimi tempi abbiamo letto e ascoltato più volte analisi speranzose sullo stato dell’ architettura in Italia. Quasi tutte queste disamine basano il loro ottimismo sulle aspettative riposte nella nuova legge quadro sull’architettura e, soprattutto, sulla rinnovata e sempre più diffusa pratica del concorso, auspicata panacea di tutti gli ormai pluridecennali mali della nostrana pratica dell’architettura.
Dopo anni di oscurantismo, si dice, in cui la quasi totalità delle commesse pubbliche e dei grandi processi di trasformazione urbana venivano affidati alle scelte di pochi, a giochi di potere e a scambi di favori, è finalmente in campo anche nel nostro paese uno strumento che consente una limpida e corretta selezione delle idee e dei progettisti.
Va dato atto, in effetti, del fatto che sempre più amministrazioni ed enti, volenti o nolenti, si affidano a questo strumento. Ma ciò evidentemente non basta. Sebbene già Camillo Boito sottolineasse come “i concorsi sono cosa democratica” (C. Boito, Questioni pratiche di belle arti, Milano, 1893, pag. 178), infatti, il concorso non è di per sè in grado di garantire risultati soddisfacenti. Molto dipende da come viene utilizzato, da chi e con quali scopi.
Parecchi sono ancora i punti oscuri e le questioni irrisolte. Quanti sono, infatti, in Italia i concorsi di progettazione che si concludono con l’ assegnazione dell’incarico al vincitore? Si pensi, tra gli altri, alla vecchia vicenda Izozaki-Uffizi o alla più recente Fuksas-Agenzia spaziale italiana, ma anche, e qui il vizio si scopre antico, alla grande maggioranza dei numerosi concorsi banditi per Roma Capitale (Sul tema si veda F. Mangone, L’architettura dell’Italia unita nello specchio dei concorsi: riflessi e deformazioni, 1860-1914, in M. L. Scalvini, F. Mangone, M. Savorra, Verso il Vittoriano, Napoli, 2002). E quanti sono i concorsi di idee che trovano il loro naturale sbocco in un concorso di progettazione, a partire dalle basi gettate con la prima fase? Perché bandire concorsi se già si sa che non ci saranno i fondi per realizzare l’opera? O se, quando va bene, si auspica il loro stanziamento alle calende greche? E quante sono, infine, le opere di grande importanza affidate ancora con incarico diretto dalle amministrazioni, magari alla archistar di turno? Tra i molti illustri esempi in merito pensiamo al museo dell’Ara Pacis di Roma di Richard Meyer o alle stazioni della metropolitana di Napoli investite di tanto risalto alla Biennale di Venezia del 2006 proprio in virtù degli altisonanti nomi dei progettisti piuttosto che della effettiva qualità dei progetti. Che poi i progetti siano o meno buoni è un altro paio di maniche, evidentemente. Siamo forse di fronte ad un classico esempio di cambiare tutto perchè nulla cambi?
Sul tema hanno scritto in molti. Fuksas su l’Espresso (M. Fuksas, Giurie da rifare, in L’espresso, n. 35, 8/9/2006, pag. 125) avanza dubbi sui metodi che portano alla composizione delle giurie e suggerisce alle amministrazioni di dotarsi di consulenti a tempo determinato per favorire la trasparenza, mentre Dal Co, Andriani, Desideri, Careri e Purini su Casabella (F. Dal Co, Nuovi musei e C. Andriani, P. Desideri, F. Careri e F. Purini, Roma, museo dell’Ara Pacis. Richard Meyer: opinioni a confronto, in Casabella, n. 745, 6/2006, pag. 3-7), nell’analizzare la vicenda Meyer-Augusteo si ritrovano quasi tutti concordi nel sostenere che, se è da salutare con giubilo la prima realizzazione di architettura moderna dal dopoguerra all’interno del perimetro delle mura, è parimenti necessario sottolineare la sostanziale scorrettezza della procedura adottata, sia per l’incarico affidato in maniera diretta, sia per la disgiunzione del tema da quello della piazza, oggetto di un tardivo concorso recentemente aggiudicato a Francesco Cellini.
Molti e vari sono i vizi procedurali del concorso all’ italiana, il primo dei quali è la pressoché totale mancanza di coinvolgimento nella fase pre-concorsuale degli attori interessati: la società civile ed i futuri utenti con le loro istanze (a beneficio di chi si realizza infatti un’opera di architettura?), le Soprintendenze coinvolte (che dopo, ma solo dopo si fanno sentire, eccome!), le istituzioni tutte. Certe analisi, di concerto con le istituzioni, andrebbero sempre svolte a monte del concorso, per non ritrovarsi poi a gestire divergenze insormontabili.
C’è poi l’annosa difficoltà che hanno le istituzioni a dialogare tra loro. Per tanti motivi, dall’inerzia alla mancanza di cultura, alle oggettive difficoltà, che vanno senz’altro rimossi al più presto. L’esperienza che le Ferrovie dello Stato stanno affrontando coi concorsi per le nuove stazioni dell’Alta Velocita / Alta Capacità e con la recente competizione per le piccole stazioni della rete vanno, seppur tra qualche difficoltà, nella giusta direzione.
Alcuni piccoli ma fondamentali accorgimenti, già sperimentati con successo altrove, consentirebbero al concorso italiano di diventare realmente efficace. Un tema è quello dell’utilizzo della strategia del progetto come esercizio di selezione delle questioni sul tappeto, al fine della stesura di un più chiaro e completo bando di concorso. I diversi approcci progettuali possono consentire, infatti, di sollevare dei temi che, una volta sviscerati, costituiscano l’ossatura del bando. Sarebbe auspicabile, dunque, in fase pre-concorsuale, coinvolgere un gruppo di progettisti, preferibilmente di varia provenienza, per condurre un’analisi approfondita del sito, del tema di progetto e di tutte le questioni correlate, elaborando non tanto dei veri e propri progetti, quanto dei meta-progetti che individuino una serie di orientamenti possibili.
Vi è poi la necessità di un’ analisi multilayer sul territorio, basata su una pluralità di approcci, da quello dell’analisi geomorfologica del territorio a quello delle attività produttive, da quello infrastrutturale a quello delle relazioni con il contesto e con le sue emergenze, uno stimolo costante alla pluridisciplinarità ed alla interdisciplinarità in tutti i casi in cui sia necessario. Nella redazione del bando di concorso dovrebbero essere coinvolte, in qualità di consulenti, le figure professionali più disparate e adatte ad analizzare il caso in questione e si dovrebbe richiedere, di conseguenza, la presenza nei gruppi di progettazione di esperti in ciascuno dei settori disciplinari che ricadono nell’ambito del progetto stesso.
A questo punto, al termine di un’ampia ed approfondita fase istruttoria, è quindi necessario un esercizio di sintesi per l’elaborazione di un metaprogetto condiviso, in cui confluiscano tutti i diversi approcci e che faccia da solida base per la stesura del bando.
Solo la redazione di un bando di concorso forte, con indicazioni precise, chiare e condivise, può garantire risposte coerenti. Un bando ben fatto non si presta a forzature e fraintendimenti e, se non li garantisce, quantomeno favorisce gli auspicati risultati di qualità. Al di là dei vuoti e retorici richiami alla promozione della qualità della famigerata direttiva comunitaria.
Ma come si fa a gestire questo complesso processo? Quali sono le modalità ed i soggetti che possono compiere questa serie di operazioni? Esiste in Italia, nelle amministrazioni e negli enti un personale intellettuale in grado di gestirle al meglio?
Questo processo, d’altronde, pur così laborioso, andrebbe adottato con rigore in tutti quei casi di trasformazioni che incidano sulle dinamiche economiche e sulla vita della collettività. Casi numerosi, per i quali non sembra possibile procedere altrimenti che nel modo suddetto, pena la determinazione di risultati parziali, insoddisfacenti, arbitrari e sempre esposti alle critiche legittime dell’opinione pubblica locale, nazionale, internazionale. E pena la sempre maggiore mancanza di riconoscimento tra cittadinanza e territorio e l’ emarginazione del mondo professionale locale, specialmente dei più giovani. Lo scopo di una procedura concorsuale virtuosa è dunque non solo la selezione di progetti corretti e condivisi, ma anche quello di favorire l’inserimento dei giovani nel processo decisionale e creativo, come da troppi anni ormai non accade più nel nostro paese. Piuttosto che le quote verdi, sancite ex lege, che impongano la presenza di un tot numero di under-non so chè, sarebbe molto meglio garantire delle condizioni ragionevolmente eque di svolgimento dei concorsi, eliminando la necessità di questi stupidi e, al limite, offensivi palliativi.
Andrea Nastri
Pubblicato su: PresS/Tletter
Tags: architettura, PresS/Tletter